LE FORME DI PRODUZIONE SUCCESSIVE

1
NELLA TEORIA MARXISTA . 1960 - 1980
arteideologia raccolta supplementi
made n.17 Giugno 2019
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
11
pagina
FORMA SECONDARIA . CAPITOLO 3 . 2

LA VARIANTE ANTICO-CLASSICA O LA FORMA SCHIAVISTA

Filiazioni comuni

Le varianti europee della forma secondaria hanno per definizione gli stessi rapporti sociali di base della variante asiatica: la comunità condizionata sempre più negativamente dalla proprietà fondiaria, ossia dalle condizioni fisiche ambientali. Ma si distinguono da quella per un'esistenza e un destino storico più movimentati delle comunità primitive già trasformate. Il loro sviluppo è dunque rapido e la loro vita più breve e svariata. In contatto diretto e pressoché costante con quella asiatica, la variante classico-antica, grazie alle sue conquiste e al suo grande dinamismo, si approprierà a tutti i livelli della sua evoluzione la base già sviluppata dell'Oriente, i suoi rapporti sociali originali trasformandosi così sempre più fino ad oscillare dallo schiavismo al servaggio mitigato, mentre gli scambi monetari e commerciali assumeranno notevole estensione nel bacino del Mediterraneo. Ma questi ultimi elementi sono compatibili solo fino a un certo grado con la forma secondaria, per cui sotto la spinta dei Germani faranno saltare la forma classico-antica per dare origine a una società nuova, quella feudale.
Nella nostra indagine, la variante classico-antica segue quella asiatica, a cui essa deve molto, e precede quella germanica con la quale essa si scontrerà e si fonderà per dar vita al feudalesimo. Originarie entrambe dell'India, la variante sviluppatasi sulle rive del Mediterraneo (Grecia e Roma) e quella continentale germanica si distinguono per le modificazioni già subite in rapporto alla comunità primitiva (consanguineità) e all'ambiente naturale (struttura della proprietà fondiaria).
Primi immigranti del grande ceppo degli Ariani passati dall'Asia in Europa, i Greci e i Latini presero possesso delle due penisole del Sud-Est del continente. Nel corso della migrazione, si produssero ulteriori grandi trasformazioni nei loro rapporti sociali a prepararono queste tribù ad adattarsi alle nuove condizioni geografiche e storiche di produzione: Quanto più le circostanze non richiedono un lavoro collettivo per la regolazione idrica della produzione agricola, quanto più il legame diretto fra tribù e natura è spezzato dal movimento storico e dalla migrazione, giacché la tribù si allontana dalla sua sede originaria e occupa terre straniere, essa viene dunque a trovarsi in condizioni di lavoro sostanzialmente nuove in cui il singolo può sviluppare maggiormente la sua energia e cercare di soppiantare la comunità (p. 455).
Le caratteristiche distintive già pronunciate in India si accentuano dunque ulteriormente nel corso delle migrazioni e trovano piena fioritura sulle rive del Mediterraneo: la scissione fra comunità e proprietà fondiaria si fa più radicale, poiché la comunità si separa radicalmente nel corso delle migrazioni dalla vecchia base, la terra. E il risultato può apparire sorprenden­te: in un primo tempo, infatti, proprio i legami sociali evolvono di più, permettendo un migliore adeguamento delle strutture sociali alle nuove condizioni ambientali che corrispondono a una notevole evoluzione della forma della proprietà fondiaria. Insomma, nel corso delle migrazioni assistiamo a una specie di autonomizzazione dei legami comunitari sotto la spinta delle nuove condizioni storielle di vita. La nuova comune agricola che ne risulterà sarà il primo raggruppamento umano di UOMINI LIBERI NON RACCHIUSI NEI LEGAMI CONSANGUINEI. Una breve indicazione di Marx mostra come il possesso privato si sia consolidato nel corso della migrazione che raggruppava piccoli gruppi nei carri: le abitazioni, fossero anche i carri degli Sciti, figurano sempre in possesso del singolo [1].
Nella forma arcaica della proprietà fondiaria, i frutti divenivano possesso dell'individuo solo dopo essere stati staccati dalla terra, che era per definizione proprietà collettiva: insomma, il possesso individuale non riguar­dava che le cose mobili In seguito, dall'abitazione mobile del carro durante le migrazioni, l'usufrutto personale si estese alla casa di abitazione e all'orto o corte all'epoca della sedentarizzazione. In Lo sviluppo della proprietà, Paul Lafargue dice infatti: Verosimilmente, la casa è stata a lungo considerata come un bene mobile e non come un bene immobile, legato al suolo.
Nel terzo abbozzo della lettera di Marx a Vera Zasulic si può leggere: La proprietà fondiaria privata si insinua in tal modo nei rapporti sociali nella forma di una casa con la sua corte rustica, che può trasformarsi in piazzaforte da cui si prepara l'attacco contro la terra comune. Ed Engels da par suo ironizza: Il primo pezzo di terreno a trasformarsi in proprietà privata individuale fu il posto dove sorgeva la casa. L'inviolabilità dell'abitazione, questo  fondamento  di  qualsiasi libertà personale, passò dal carro delle migrazioni alla casa di tronchi (blockhaus) del contadino residente e si trasformò progressivamente in un pieno diritto di proprietà su casa e corte. Così dunque, il carattere sacro del domicilio fu causa e non risultato della sua trasformazione in proprietà privata [2].
Date le condizioni analoghe, lo sviluppo e l'autonomizzazione della proprietà individuale della casa e annessi faranno sentire il loro effetto tanto presso i Greci e i Romani che presso i Germani, determinando non solo il divario sostanziale tra le varianti europee e quella asiatica, ma altresì tra variante antico-classica e germanica, nella quale la proprietà individuale prevarrà fin dall'inizio sulla proprietà collettiva, a conferma che l'evoluzione va sempre più a fondo. Ciò si spiega indubbiamente dal fatto che le singole famiglie germaniche si stabilirono in un territorio poco popolato, ricco di boschi, di paludi e di montagne, dove l'annuale ripartizione della terra da coltivare non aveva senso e non era praticamente realizzabile; il possesso individuale finì per fissarsi in proprietà privata e poté estendersi più facilmente.
All'inizio, la proprietà individuale non è in realtà che un'isola, e non solo si combinerà con la proprietà comunitaria ma su di questa si appoggia: Nella comune agricola, la casa e il suo complemento, la corte, appartengono in privato al coltivatore. La casa comune e l'abitazione collettiva erano invece una base economica delle comunità più primitive; e questo già da molto prima dello sviluppo della vita pastorale o agricola. Una forma di transizione si incontra in certe comuni agricole in cui le case, pur avendo cessato di essere luoghi di abitazione collettiva, cambiano periodicamente possessore. All'ini­zio, l'usufrutto individuale è quindi combinato con la proprietà comune [3].
E Marx giunge ben presto a constatare che il processo d'individualizza­zione si prolunga fin nella produzione vera e propria: nei paesi conquistati, i barbari si insediavano — cioè edificavano case singole — secondo la ripartizione o distribuzione che occupavano durante la migrazione nei carri, edificavano cioè case individuali, e poiché la guerra aveva spostato il centro di gravità della comunità sul compito collettivo della difesa, la resistenza della comunità era meno viva nel campo economico già sconvolto dalla migrazione.
La casa si circonda così di una corte e di una dipendenza, con animali da tiro e pollame, e trova prolungamento in una parcella. Ma tutto questo settore privato si basa su legami comunitari. Tuttavia, nota Marx, questo dualismo inerente alla struttura della comune agricola della forma secondaria le conferisce, in certe condizioni, una vita vigorosa. Emancipata dai forti ma angusti legami della parentela naturale, la proprietà comune del suolo e i rapporti sociali che ne discendono le garantiscono una solida base, nell'atto stesso che la casa e la corte, dominio esclusivo della famiglia individuale, la coltura parcellare e l'appropriazione privata dei suoi frutti danno all'indi­vidualità uno slancio incompatibile con la struttura organica delle comunità più primitive.
Indagando non la forma giuridica ma quella economica della proprietà, Marx vede la dinamica nel processo di produzione, giacché fino a quando solo i frutti staccati dalla terra furono oggetto di consumo individuale, non vi fu posto per la proprietà privata: si era sul piano del consumo e non su quello, decisivo per l'evoluzione sociale, della produzione. Egli sottolinea perciò: l'essenziale è il lavoro particolare (sia sull'appezzamento o sulle dipendenze della casa, che nell'artigianato domestico), che diviene fonte di appropriazio­ne privata. Esso può dar origine, in certe condizioni, all'accumulazione di beni mobili, per esempio bestiame, denaro, e, a volte, perfino schiavi o servi in seguito a guerre fortunate. Sia nella forma antico-classica che in quella germanica, questa proprietà mobile, non controllabile dalla comune, soggetto di scambi individuali in cui l'astuzia e l'accidente hanno buon gioco, peserà sempre più su tutta l'economia rurale. Ecco il solvente più efficace dell'eguaglianza economica e sociale primitiva. Nella forma antico-classica, esso introduce elementi eterogenei, che provocano in seno alla comune conflitti di interesse e di passioni atti ad incidere prima sulla proprietà comune delle terre coltivabili, poi su quella delle foreste, dei pascoli, delle terre incolte, ecc., che erano rimaste proprietà collettiva, ager publicus presso Greci e Romani. Queste finirono per toccare in sorte ai grandi proprietari privati, i patrizi, che ne faranno un'arma per arricchirsi ulteriormente (ibid).
L'arma economica si combina sempre con l'arma della violenza: nelle guerre di conquista i patrizi troveranno la manodopera schiavista che permetterà loro di riprodurre le proprie ricchezze nel processo di produzione agricolo e artigianale. Ma anche su questo piano, le varianti europee della forma secondaria non hanno fatto che sviluppare un fattore che, fin dalla loro genesi, aveva giocato un ruolo decisivo: La guerra è il grande compito collettivo, il grande lavoro comunitario che si richiede prima per impadronirsi delle condizioni materiali d'esistenza, poi per difenderne e perpetuarne l'occupazione. Perciò, più che mai nel corso delle migrazioni, la comunità costituita di famiglie è organizzata anzitutto militarmente, come corpo armato e guerriero: è una delle sue condizioni d'esistenza come proprietaria. Nella forma classico-antica, la base di questa organizzazione militare è la concentrazione delle abitazioni nella città, in cui è drenato il prodotto eccedente delle comuni rurali, là dove essa procede al versamento delle imposte e ai suoi scambi.
Nella forma germanica, l'elemento militare è diffuso nelle campagne e sarà alla fine un fattore decisivo per la ulteriore evoluzione dei rapporti sociali prima della secolare crisi d'insicurezza provocata dalle successive ondate migratorie.
Nelle guerre di conquista per ingrandire i possedimenti dei patrizi e il potere basato sul numero degli schiavi, il fattore militare trovò una base nei beni e negli scambi materiali della società. In queste condizioni, anche il sistema gentilizio (tribale) doveva svilupparsi in forme superiori o inferiori organizzate militarmente, differenziazione ulteriormente accentuata dalla fusione con le tribù soggiogate, in cui lo strato superiore monopolizza le funzioni della difesa e della sicurezza (p. 455).

Rapporti sociali e forme di società 

Con la sedentarizzazione, le tendenze guerriere non solo continuarono dunque a persistere, ma spinsero la comunità ad oltrepassare continuamente i limiti in cui essa viveva. I rapporti sociali della variante classico-antica si caratterizzano infatti per un estremo dinamismo e mobilità. La forma più adeguata di organizzazione era in origine la gens. All'epoca della sedentarizza­zione, essa assunse caratteristiche topografiche che si sostituirono ai legami consanguinei: saranno d'ora in poi le condizioni storiche e locali a modellare le strutture della comunità. Sarebbe d'obbligo a questo punto ricorrere sia alla documentazione storica ed economica concreta, che alla geografia economica della Grecia e di Roma: è quanto Marx ha fatto instancabilmente, benché, nel suo testo sulle Forme successive di produzione, egli non dia che i risultati che hanno determinato le strutture sociali della variante antico-classica [4]. La dinamica di queste società si spiega con l'interazione delle condizioni materiali sui rapporti sociali e viceversa. Questi due elementi erano di una plasticità estrema durante quella fase altamente rivoluzionaria della storia vivente. Certo, i legami consanguinei erano ancora potenti all'inizio dell'era greca e romana, ma non giocavano più il ruolo decisivo come nel comunismo primitivo. La loro plasmabilità e capacità di evoluzione consentono anzi un dinamismo e una mobilità straordinaria. Proprio in tali processi rivoluzionari si può svelare la dialettica tra le condizioni ambientali materiali e i rapporti sociali di produzione: i legami sociali dei popoli migratori erano essi stessi già o prodotto delle condizioni di produzione del paese di provenienza (l'India in questo caso), e dunque l'espressione delle forme di produzione ivi dominanti; questi rapporti sociali continueranno ad evolvere adattandosi alle nuove condizioni materiali che le comunità migrataci incontreranno. Queste strutture, che sembrano autonomizzarsi e determinare la vita e la produzione, sono anch'esse in piena evoluzione sotto la spinta delle condizioni materiali.
La forma dei rapporti sociali discende dal modo di accesso delle condizioni di esistenza: Nella forma greca e romana, la terra è occupata dalla comunità e ad essa appartiene dunque sovranamente, è terra greca o romana. Ma una parte (ager publicus) rimane alla comunità in quanto tale; l'altra parte viene distribuita ai membri della comunità e ogni parcella di terra privata è romana perché dominio di un romano, sua quota di partecipazione al laboratorio assegnatagli dalla comunità: egli è Romano solo in quanto possiede questo diritto sovrano su una parte di terra romana (p. 458).
La proprietà della comunità (proprietà dello Stato, ager publicus) è subito separata dalla proprietà privata, di cui ciascun Romano è investito e che egli all'inizio lavora. Contrariamente alla variante asiatica in cui può aversi soltanto possesso individuale, la proprietà del singolo non è più qui direttamente proprietà della comunità.
Naturalmente il presupposto per l'appropriazione del suolo rimane sempre l'appartenenza alla comunità, ma in quanto membro di questa, l'individuo è ormai proprietario. L'ager publicuis, il bene immobile materiale della comunità cui si aggiunge il sopralavoro del servizio militare, è il fondamento del reciproco rapporto dei proprietari privati liberi e uguali, poiché rappresenta il loro legame nei confronti dell'esterno e contemporanea­mente la garanzia della loro riproduzione. La struttura sociale è duplice: da una parte, i membri della comunità sono proprietari fondiari che lavorano, contadini parcellari; dall'altra, i loro rapporti reciproci sono quelli di membri della comunità la cui esistenza è garantita dall'ager publicus. La proprietà privata è, per il Romano, la sua parcella, e nello stesso tempo la sua qualità (e le sue funzioni) di membro della comunità (cittadinanza romana).
Insomma, nella sua forma classica, la variante greca e romana implica la proprietà del singolo mediata dalla sua qualità di membro dello Stato, dall'esistenza dello Stato, ossia dalle funzioni militari che gli hanno fatto conquistare la sua terra e gliene garantiscono il godimento. Qui, come nella variante asiatica, lo Stato ha una funzione essenziale, al contrario della variante germanica in cui l'elemento militare non è concentrato ma diffuso.
Il presupposto della comunità romana è la perpetuazione della comunità (Stato), con il mantenimento dell'uguaglianza tra i liberi contadini autosufficienti, il cui lavoro è per ciascuno condizione della perpetuazione della proprietà [5]. Ma le guerre e le conquiste mineranno questi stabili rapporti originari sviluppando da una parte lo schiavismo e dall'altra gli scambi commerciali, che rovineranno il libero contadino romano e lo metteranno alla mercé dei suoi concittadini più ricchi, i quali si accaparreran­no la direzione delle guerre, dello Stato e dell'ager publicus, cioè il potere economico e politico.
L'evoluzione verte essenzialmente su una mutazione della comunità, che da consanguinea diventa politica, poiché è determinata dalla proprietà privata del suolo, prima parcellare, poi concentrata nei grandi possedimenti del patrizio.
Decisiva è, in ultima analisi, la proprietà fondiaria, e saranno i reali rapporti di appropriazione, il processo di produzione, a determinare la posizione sociale del cittadino greco o romano: La perpetuazione della comunità ha per condizione il mantenimento dell'uguaglianza tra i contadini autosufficienti e il cui lavoro perpetua la proprietà. Essi si riferiscono come proprietari alle condizioni naturali del lavoro; ma tali condizioni devono ancora essere realmente poste di continuo mediante il lavoro personale, come condizioni ed elementi oggettivi della persona, dell'individuo e del suo lavoro personale. D'altro canto – ed è il dualismo che determinerà tutta la dinamica ulteriore di questa forma che sfocerà nello schiavismo – la tendenza di questa piccola comunità bellicosa la spinge a superare questi limiti (Roma, Grecia, ebrei, ecc.) (p.456). 

Stato e cittadinanza 

La separazione tra comunità e proprietà fondiaria all'epoca della migrazione ha per effetto – nel campo della distribuzione che fissa la ripartizione degli individui e delle condizioni di produzione – che la semplice appartenenza alla comunità sia il presupposto all'accesso della proprietà fondiaria, terra romana. Ne risulta un rapporto del soggetto che lavora con le condizioni naturali del suo lavoro come proprie, poiché questa proprietà è mediata dalla sua condizione di membro dello Stato, dall'esistenza di questo Stato. Dal punto di vista economico, il Romano per poter essere cittadino e usufruire della proprietà dispensata dallo Stato sovrano, deve quindi effettuare anche del sopralavoro in forma di servizio militare, ecc.
L'agricoltura, perlomeno all'inizio, era unanimemente considerata dagli Antichi come l'attività normale dell'uomo libero, come la scuola del soldato. In essa si conserva il vecchio ceppo della nazione che muta invece nelle città, in cui si stabiliscono commercianti e artigiani sia stranieri che indigeni, i quali si spostano dove il guadagno li attrae. Ovunque esiste la schiavitù, il liberto cerca di guardagnarsi da vivere con queste attività, che poi gli permettono spesso di accumulare ricchezze; sicché nell'antichità questi mestieri erano prevalentemente in mano loro, e proprio per questo erano ritenuti indegni per il cittadino. Solo molto tardi fu concessa agli artigiani la cittadinanza (di regola presso gli antichi Greci essi ne erano esclusi) (p. 458-9).
Dal momento che la comunità umana non è più indissolubilmente legata alla natura circostante, come in Asia, ma si trova determinata dai mutui legami – mediati dallo Stato – tra piccoli proprietari liberi e uguali, essa acquista un carattere determinante nell'attribuzione delle situazioni sociali. I legami che si sono allentati con la terra si concentrano adesso nello Stato, che diviene il mediatore supremo: solo il cittadino romano può essere proprieta­rio. Il Romano provvede alla propria sussistenza e alla propria sopravvivenza lavorando nella parcella privata, ma anche come cittadino romano nei lavori collettivi, la guerra ecc.
L'ager publicus, predomina da questo momento come l'Unità suprema dello Stato e della grande proprietà fondiaria che, appropriata alla fine dai patrizi, si sostituirà per il libero gioco delle forze economiche, al patto d'uguaglianza dei piccoli contadini contro l'esterno. Più che il lavoro sulla parcella privata, è quindi la cooperazione nei lavori di interesse collettivo che mantiene saldo il legame all'interno nei confronti dell'esterno.
Anche qui, come in Asia, il ruolo dello Stato è dunque eminente, dal momento che, come si è visto, la proprietà dell'individuo è mediata dalla sua esistenza in quanto membro dello Stato, dall'esistenza dello Stato:
La perpetuazione della comunità è la riproduzione di tutti i suoi membri in quanto contadini autosufficienti, il cui tempo eccedente appartie­ne alla comunità ed è dedicato all'attività bellica ecc. La proprietà del lavoro individuale è mediata dalla proprietà della condizione del lavoro, dell'appezzamento di terra, che dal canto suo è garantito dall'esistenza della comunità, e questa, a sua volta, è garantita dal sopralavoro prestato sotto forma di servizio militare ecc. dai membri della comunità. Il membro della comunità non si riproduce dunque con la cooperazione nel processo di lavoro produttivo della ricchezza, ma con la cooperazione nel lavoro di interesse collettivo (immagi­nario o reale), teso al mantenimento dell'associazione all'interno e verso l'esterno. La proprietà è quiritaria, romana; il proprietario fondiario privato è tale solo in quanto romano, ma in quanto romano è proprietario fondiario privato (p. 457).
Con la separazione della comunità dalla madre-terra e il suo spostamen­to, da una parte la parcella è diventata proprietà privata individuale, dall'altra la proprietà comune rimasta collettiva ha subito una trasformazione autonomizzandosi nell'ager publicus: quella proprietà comune che in origine tutto assorbiva e dominava, si è sviluppata adesso come ager publicus particolare a fianco dei molti proprietari privati. La relativa autonomia della comunità nei confronti della proprietà fondiaria, ma più ancora dei singoli, fa nascere una nuova sfera dell'attività sociale: la politica, poiché i legami comunitari diventano politici.
Questo sviluppo era inscritto fin dall'inizio del processo nel fatto che il proprietario privato era anche cittadino urbano.
Con la concentrazione nella città in quanto centro direttivo della vita rurale, residenza del lavoratore agricolo e soprattutto quartiere generale per le operazioni belliche, la comunità acquista come tale un'esistenza esterna, distinta da quella del singolo (p. 460).
La storia greca e romana è perciò storia di città, ma di città fondate sulla proprietà fondiaria e sull'agricoltura (caratteristiche della forma di produzione secondaria in generale). L'organizzazione statale sorge dunque direttamente da questa esistenza separata e permanente nella città. Non a caso politica deriva da polis, città. La chiave dello sviluppo della società antica deve essere cercata nei rapporti sociali.
Si comprende così perché Roma poté sconfiggere la sua rivale fenicia Cartagine, popolo essenzialmente mercantile e quindi unilateralmente sviluppato, mentre essa disponeva di un contadiname intraprendente, zelante, allenato alle armi, e inquadrato militarmente dalla città, il cui principio vitale era, fin dall'inizio, l'espansione della comunità con l'occupazione di nuove terre e contrade, e dunque di nuovi mezzi di produzione.
Quando gli àuguri ebbero assicurato a Numa che gli dei approvavano la sua elezione, la prima preoccupazione di questo pio re non fu il culto religioso, ma la sorte degli uomini. Egli distribuì le terre che Romolo aveva conquistato in guerra e che aveva lasciato occupare: creò il culto di Terminus. Tutti gli antichi legislatori, e Mosè per primo, hanno fondato il successo delle loro prescrizioni in materia di virtù, giustizia e morale, sulla proprietà fondiaria, o almeno sul possesso della terra garantito ereditariamente al maggior numero possibile di cittadini (p. 456-7).
Il primo periodo della storia dell'antichità, in cui ogni cittadino dello Stato era proprietario di una parcella di terra che lui stesso lavorava, doveva necessariamente condurre ai rapporti schiavisti, causa a loro volta della dissoluzione della società antica. Infatti la proprietà privata racchiude in sé la propria negazione e distruzione, in maniera molto semplice e pressoché diretta, nella non-proprietà, che si sviluppa e si generalizza con l'introduzione e la concentrazione della proprietà privata stessa. Se i patrizi posero sotto la propria dipendenza i loro concittadini non fu perché avevano in mano lo Stato, ma perché la piccola proprietà si dissolse necessariamente nel processo progressivo della produzione che consentì ai più ricchi di impadronirsi dello Stato e utilizzarlo a proprio esclusivo vantaggio. La sfera politica, che si stacca come rapporto di dominio dal processo di autonomizzazione sempre crescente della comunità, forma ormai la sovrastruttura dello Stato. D'ora in poi, ogni passaggio al modo di produzione superiore implica dunque l'abbattimento del vecchio Stato che difende i superati rapporti di produzione.
Con la predominanza dello Stato sulla comunità consanguinea, a Roma tutti i rapporti furono sconvolti: cessarono di costituire la garanzia dell'uguaglianza e della libertà di ciascun contadino sulla propria parcella per divenire un mezzo di oppressione e di spoliazione:
Già prima della soppressione della cosiddetta monarchia, fu distrutto a Roma l'antico ordinamento sociale fondato sui personali vincoli di sangue; al suo posto subentrò una nuova, reale costituzione dello Stato, basata sulla ripartizione territoriale e sulla diversità di censo. La forza pubblica era composta di cittadini costretti al servizio militare, di fronte non soltanto agli schiavi, ma anche ai cosiddetti proletari esclusi dal servizio militare e dal portare armi [6].
Il principio rimane però sempre economico: la proprietà della terra rende cittadini romani, e l'influenza sullo Stato è proporzionale alla proprietà posseduta. L'equilibrio tra politica ed economia si sposta a favore della seconda, che diviene una sfera anch'essa sempre più autonoma e decisiva. Per la loro genesi, i rapporti politici, come parti componenti della sovrastruttura di forza, sono gli antichi rapporti di produzione della comunità primitiva autonomizzati e sclerotizzati. Si deve inoltre distinguere tra sovrastrutture giuridiche e politiche, cioè statali, che esercitano una costrizione fisica sugli individui, e sovrastrutture ideologiche che esercitano una pressione sui cervelli. 

Lotte di classe e sviluppo sociale 

Come tutti i rapporti statali, anche quelli dell'antichità conducono a una mistificazione: sembra che sia la politica, e non lo sviluppo dei rapporti produttivi a determinare le reali condizioni di vita. Nel Capitale, Marx spiega: Nel mondo antico, la lotta di classe assume principalmente la forma di una lotta fra creditori e debitori, e a Roma finisce con la disfatta e la rovina del debitore plebeo, che viene sostituito dallo schiavo [7]. La lotta di classe sulla questione della proprietà privata e dell'espropriazione è dunque scoppiata fra cittadini di una stessa comunità, contadini liberi e uguali. Tutte le pianure e le campagne dell'Attica erano piene di cippi ipotecari, su cui era specificato che il fondo era ipotecato in favore del tale o del tal altro per tanto o tant'altro denaro. Si credette di poter far tornare indietro il movimento economico invalidando semplicemente i debiti con misure politiche. Ci si mise con tale impegno che il movimento di espropriazione, riprese, e le campagne dell'Attica si ritrovarono di nuovo coperte da quegli stessi cippi ipotecari [8].
Per comprendere questi fatti storici bisogna dunque considerare il processo di lavoro e le basi produttive della società. Nella forma secondaria, in tutte le sue varianti, sono i rapporti della proprietà fondiaria e il mezzo sociale  di lavoro afferente – a Roma l'ager publicus – a determinare il divenire sociale e le sorti della stessa politica. A Roma, dove rispetto ad Atene il processo ha potuto svilupparsi in maniera più pura e compiuta, i patrizi finirono per usurpare l'ager publicus e con esso l'autorità dello Stato: la proprietà del suolo – e per di più proprietà romana senza limiti – aveva totalmente trionfato. Questo primo antecedente storico rivela la fragilità della proprietà parcellare in rapporto alle determinazioni della grande proprietà fondiaria, o, in altri termini, della sorte della grande maggioranza dei cittadini e possessori di parcella di fronte all'ager publicus, grande proprietà concentrata.
Ed è una superiorità talmente schiacciante che il piccolo contadino vi vede una premessa divina che, come una forza della natura lo domina e in determinate condizioni lo annienta: La sua proprietà è mediata dalla sua condizione di membro dello Stato, l'ager publicus; in altre parole, da un presupposto considerato come divino (p. 456).
Là dove esiste già una separazione fra i membri della comunità in quanto proprietari privati e il detentore di un diritto sull'ager publicus (la base materiale della comunità esistente), sorgono ben presto le condizioni atte a far perdere al singolo la sua proprietà, cioè la sua duplice esistenza di proprietario parcellare e di cittadino dello Stato, ossia la posizione di uguaglianza che egli acquisisce alla nascita nella comunità (nazionalità).
Nella forma orientale questa perdita è a mala pena concepibile, anzi può aver luogo in seguito a circostanze del tutto contingenti ed eccezionali, essendo ivi l'individuo saldamente ancorato alle condizioni oggettive ed economiche della comunità.
A Roma, invece, bastava che il cittadino perdesse la proprietà della parcella e quindi degli strumenti di lavoro, per correre il rischio di perdere anche la proprietà di se stesso: l'appartenenza dell'individuo alla comunità era infatti mediata dal suo appezzamento di terra, sicché egli non aveva un'esistenza autonoma. Nella forma secondaria, infatti, l'uomo (col suo lavoro), lo strumento e la terra sono ancora saldati insieme, e chi per accidente, guerra o carestia, oppure in seguito al processo economico dell'espropriazione ne è separato, è campato in aria e può ritrovare nuove condizioni di vita e di lavoro solo disponendosi – come schiavo – tra le oggettive condizioni di produzione altrui, di un proprietario. I suoi legami si spezzano non solo verso la terra, ma anche verso la comunità, la società degli altri uomini, e se ne appropria il patrizio trasformandoli in legami di dipendenza personale, poiché egli rappresenta lo Stato in quanto proprietario e accumulatore di terre.
Per non diventare schiavo (come i prigionieri di guerra, che in quanto semplici mezzi di produzione materiale – instrumentum mutum venivano utilizzati come bestie da soma o appendici della terra), il cittadino romano rovinato, il plebeo,  doveva mettersi sotto la protezione di un cittadino romano ricco. Questi mediava ormai per lui la sua appartenenza, vuotata di ogni contenuto, alla comunità – e la cittadinanza romana pei Romani espropriati evolse verso un rapporto di clientela, che annuncia i legami di dipendenza personale, anzi l'infeudamento della successiva forma terziaria. Questi rapporti implicavano un assoggettamento più o meno grande del debitore, che evitava però di divenire schiavo del creditore. Se invece non trovava una certa "cauzione", il debitore vedeva i propri beni confiscati dal creditore e rischiava di finire nei possedimenti di costui a lavorare come schiavo. Il patrizio accumulava così le condizioni ad un tempo materiali e soggettive della produzione — la proprietà dei suoi concittadini — e aumentava il suo peso nello Stato proporzionalmente al numero dei suoi clienti. In tal modo, i patrizi insieme alla parcella privata si accaparrarono anche abusivamente i diritti sull'ager publicus e sulla cosa pubblica dei plebei e dei debitori insolventi, e "rappresentavano" sul piano politico tutti i plebei rovinati, proprio come in buona democrazia il deputato rappresenta i suoi elettori: perché il denaro potesse così compensare la partecipazione di un Romano alla terra, bisognava che la produzione mercantile fosse già largamente sviluppata.
Si trattò in realtà di una vera e propria spoliazione, poiché i diritti sull'ager publicus derivavano al cittadino dalla sua nascita romana (la sua nazionalità) e non erano dunque alienabili come una qualsiasi merce: erano un usufrutto, un godimento. Si vede qui nettamente delinearsi il movimento che assicura la priorità alla proprietà fondiaria sui legami di sangue, al denaro e alle merci sui "diritti dell'uomo": la forza prevale sempre sul diritto, e l'economia determina i rapporti politici, che si piegano alla volontà dei ricchi e dei potenti. E la democrazia, fin dalle sue origini nell'agorà degli antichi, non fa che mascherare coi suoi rituali questi fondamentali dati.
Storicamente, fu con la semplice occupazione dell'ager publicus – Marx precisa – che i patrizi si arrogarono prima il diritto di goderne, poi di possederlo con una sorta di prescrizione, sì da investirne essi stessi più tardi a titolo precario i loro clienti. Il trasferimento di proprietà dell'ager publicus non poteva effettuarsi che tra cittadini romani, tra patrizi e plebei. Tutte le assegnazioni si facevano a favore dei plebei, suscettibili di essere indennizzati per la loro quota di terra comunitaria. La proprietà fondiaria vera e propria, eccettuato il territorio limitrofo alle mura della città, era originariamente nelle mani dei soli plebei (le terre comunitarie furono assorbite più tardi). La plebe romana era essenzialmente un insieme di contadini, secondo la definizione della proprietà quiritaria (p. 458).
Tutto lo sviluppo delle forze produttive passa così attraverso la dissoluzione dei legami che uniscono il cittadino romano alla parcella: sia i clienti che gli schiavi lavoreranno per arricchire il patrizio e ingrandire i suoi dominii e il suo potere negli affari pubblici. Nella produzione materiale, il lavoro della maggioranza non servirà che ad accrescere la ricchezza altrui e ad accelerare la rovina propria.
La violenza, "questa potenza economica", fu un agente energico per la rovina della grande massa dei piccoli proprietari romani:
Le stesse guerre con le quali i patrizi romani rovinavano i plebei, costringendoli ai servizi bellici, impedendo loro di riprodurre i mezzi di lavoro e, quindi, impoverendoli (e l'impoverimento che provoca la diminuzione o la perdita delle condizioni di lavoro costituisce la forma predominante nel rapporto proprietà–non-proprietà) riempivano le cantine e i granai dei patrizi con rame predato, denaro del tempo.

Anziché dare ai plebei le merci di cui essi avevano bisogno – grano, cavalli, vacche e buoi – i patrizi davano loro in prestito questo rame di cui essi stessi non potevano fare uso e approfittavano della situazione per spremere enormi interessi usurai e fare in tal modo dei plebei i loro schiavi-debitori [9].
È caratteristico delle società di classe che ogni catastrofe sociale – cataclisma naturale o guerra apportatrice di penuria e carestie – sia messa a profitto per assoggettare gli uni e arricchire gli altri. Il procedimento è tanto più facile se si applica alla piccola parcella privata, la più esposta al minimo rischio economico.
Questa prima separazione dell'uomo dalla sua fondamentale condizione produttiva, la terra, fu necessaria al massimo sviluppo della proprietà fondiaria, che diviene in tal modo autonoma. Tale separazione può compiersi in quanto il produttore era distinto dal blocco umano della comunità proprietaria della terra. Con la parcellizzazione della terra in tanti lotti per quanti produttori, da quel momento espropriati e senza difesa di fronte al processo di accumulazione della proprietà fondiaria, si spianò il terreno per l'assoggettamento del produttore – divenuto schiavo – alla grande proprietà fondiaria stessa.
Questa prima dissociazione o autonomizzazione della proprietà fondia­ria aprirà la strada ad un ulteriore aumento delle forze produttive e a un nuovo più radicale processo di espropriazione. Ma questo primo processo di espropriazione e di accumulazione della proprietà fondiaria non poteva ancora condurre al capitalismo.
La prima accumulazione della terra nelle mani di una classe particolare fu un tragico spettacolo di guerre e di devastazioni più rovinose delle catastrofi naturali. Tuttavia, questi avvenimenti erano non contingenti, ma necessari per far avanzare il processo sociale, ne erano addirittura il mezzo principale.
Nel Capitale, Marx non ha bisogno di inventare quanto allora si svolse; egli non fa che citare un contemporaneo di questi avvenimenti, Appiano: I ricchi, occupata la maggior parte della terra indivisa (ager publicus) e resi sicuri col passar del tempo che nessuno più l'avrebbe loro tolta, si appropriarono delle parcelle vicine appartenenti ai poveri, vuoi comprandole con la persuasione vuoi prendendole con la forza, sì da coltivare estesi latifondi al posto di semplici poderi. Nel lavoro dei campi e nell'allevamento del bestiame, essi impiegavano degli schiavi, dato che i liberi, in caso di guerra, sarebbero stati sottratti al lavoro dalla coscrizione. Il possesso di schiavi era per loro assai vantaggioso perché questi erano molto prolifici e si moltiplicavano senza pericoli, stante la loro esclusione dal servizio militare. In tal modo i patrizi accentrarono nelle loro mani tutta la ricchezza e l'intero paese brulicò di schiavi. Per cui, quando i plebei tornavano dalla guerra si trovavano condannati all'inattività completa, poiché i ricchi si erano accaparrati le terre. e gli schiavi avevano rimpiazzato gli uomini liberi, romani [10].
Era la prima mistificazione dovuta alle guerre imperialiste di colonizzazione, nelle quali i poveri e gli oppressi si battono per le classi dominanti contro i loro stessi interessi materiali immediati!
Marx così descrive la fatale impotenza del piccolo proprietario contadino: Per quanto riguarda i piccoli produttori, la conservazione o la perdita dei loro mezzi di produzione dipende da mille circostanze e ciascuna di queste circostanze o perdite significa impoverimento e diventa un punto su cui l'usuraio può installarsi per succhiare. Per il piccolo contadino è sufficiente che muoia una mucca perché egli si trovi nell'impossibilità di ricominciare la sua produzione alla scala precedente [11].
E facendo l'individuo ancora parte in questo stadio delle condizioni di produzione, accadeva spesso "che la carestia portava alla vendita dei figli e alla vendita volontaria di uomini liberi come schiavi, ai ricchi" (ibid.).
La classe dominante che disponeva dei mezzi di produzione e dell'organizzazione sociale dello Stato ora che la libera ed egualitaria comunità contadina si era trasformata nello Stato schiavista dei patrizi, cercò in seguito mediante la colonizzazione di estendere il suo modo di produzione agli altri paesi del mondo antico, assoggettandosi ancor più la massa dei cittadini romani ed espropriandola più radicalmente. Tutta la storia ulteriore dell'antichità è una catena ininterrotta di tentativi di espropriazione delle masse e di tentativi di riappropriazione da parte di queste ultime, un circolo vizioso di rivolte ora schiacciate ora vittoriose. Per il loro carattere terriero, questi antagonismi non potevano superare il dualismo proprietà-non proprie­tà. La vittoria della proprietà privata (dei patrizi) significava non-proprietà (per le masse). La vittoria dei debitori non faceva che innescare di nuovo il ciclo dell'espropriazione. La società antica girava a vuoto, e doveva alla fine dissolversi. 

La dissoluzione della variante antico-classica 

Il marxismo, in quanto teoria di una classe sovversiva è l'unico in grado di comprendere i periodi – sempre estremamente fecondi per l'avvenire – di dissoluzione di una forma sociale di classe. Le ideologie conservatrici in quanto sono proprietarie, concepiscono il progresso soltanto come costruzio­ne positiva e tangibile, concezione che è volgarmente materialista.
Come già la variante asiatica, anche quella antico-classica diede risultati notevoli, che trovarono il loro pieno svolgimento solo nella successiva forma di produzione: La decadenza e la rovina degli antichi rapporti ebbero per effetto lo sviluppo dello schiavismo, la concentrazione della proprietà fondiaria, degli scambi e del denaro, e l'estensione di questo sistema attraverso le conquiste ecc. Tutti questi elementi poterono essere solo fino a un certo punto compatibili con la base sociale data e sembrarono in parte allargarla in modo innocuo, in parte germogliare da essa come escrescenze abusive. Determinate sfere hanno comunque conosciuto slanci considerevoli benché fossero in contraddizione col livello primitivo della base sociale (p. 465).
I rapporti di dominio e di asservimento sviluppati dallo Stato schiavista non poterono salvare la forma di produzione e di società, al contrario costituirono il necessario fermento dello sviluppo e della dissoluzione dei primitivi rapporti di proprietà e di produzione, mentre ne esprimevano al contempo il carattere limitato.
Proprio perché i rapporti di classe sorti dalla grande proprietà fondiaria si sclerotizzano e si concentrano nella sovrastruttura dello Stato, che impone a tutta la società la conservazione dei superati rapporti sociali, lo schiavismo e l'artigianato non potranno continuare a svilupparsi e differenziarsi autonoma­mente. L'ulteriore evoluzione si effettuerà dunque, a Roma, in un processo dissolutivo dei rapporti esistenti, ogni nuova apertura e ogni progresso vengono in capo a un certo tempo annullati perché in stridente contraddizio­ne con i rapporti sociali generali della forma secondaria. Come abbiamo detto, la società antico-classica gira ormai a vuoto.
Sarà compito dei Germani nel corso delle loro invasioni e conquiste, abbattere finalmente le impalcature politiche e giuridiche che consacrano i superati rapporti di proprietà e, imponendo i propri rapporti sociali all'evoluzione economica e sociale attinta, aprire la breccia rivoluzionaria verso il feudalesimo.
Si sarà notato che evocando la forma antico-classica facciamo riferimento a Roma piuttosto che alla Grecia. È perché Roma si è sviluppata sulle orme della Grecia in forme più pure attingendo sul piano economico e sociale i massimi vertici, donde una ben maggiore fecondità di forme anticipatrici del feudalesimo nel corso del lungo e doloroso suo periodo di dissoluzione.
La forma antico-classica, pervenuta al suo più alto livello di sviluppo, anziché migliorare la sorte della popolazione, provocò una generale cronica pauperizzazione, poiché i rapporti sociali non potevano evolvere per adattarsi allo slancio delle forze produttive, come accade ogni qualvolta una forma di produzione raggiunge il suo massimo sviluppo – e ciò si presenta nel modo più contraddittorio alla fine del capitalismo in cui l'universale crisi di sovrapproduzione genera indicibili miserie.
Così, nella Roma in decadenza, la facoltà di vendere i propri familiari in caso di bisogno era divenuto un diritto generale: il creditore poteva ovunque prendere come suo servo il debitore moroso e farsi indennizzare, nella misura del possibile, mediante il suo lavoro oppure mediante la vendita della sua persona (p. 482).
Il sistema della clientela, attuato dai patrizi nei confronti dei propri concittadini caduti in rovina, doveva anticipare senza tuttavia potersi sviluppare direttamente il futuro rapporto di dipendenza personale che prevarrà poi nella forma terziaria. La clientela era forma derivata dal seguito (comitatus in latino; Gefolgschaft in tedesco), sorta di escrescenza di rapporti comunitari arcaici sviluppatasi in collegamento a compiti militari. Già tra gli Irochesi vediamo come, accanto all'organizzazione gentilizia, si formino associazioni private che conducono la guerra di loro propria iniziativa [12]. Nate da condizioni simili, queste divennero tra i Germani organizzazioni permanenti che, data l'epoca turbolenta, esistevano anche in tempo di pace. In tempo di guerra, i nuclei permanenti venivano ingrossati da volontari. Il capo provvedeva ai bisogni degli uomini del suo seguito, distribuendo il plusvalore in natura che non era in grado di consumare da solo, trattandosi essenzialmente di mezzi di sussistenza. Coi Germani, l'istituzione poté svilupparsi in rapporto feudale perché poggiante su un rapportò di dipendenza personale, capi e subordinati giurandosi fedeltà reciprocamente (personale al di fuori dello Stato. A Roma al contrario il rapporto del seguito o clientela derivava dallo statuto di cittadinanza. Nelle regioni germaniche non occupate dai romani, ma nelle quali la guerra imperversò per secoli, queste compagnie acquistarono crescente importanza e dissolsero l'organizzazione basata sulla comunità consanguinea. Man mano che Roma perse il predominio economico e politico, le provincie ottennero una sempre maggiore indipendenza, e fiorirono le confederazioni di tribù (popoli) tra Germani o imparentati su base militare. Queste confederazioni imitavano l'ordine militare gerarchico, di cui il rappresentante più eminente fu il re alla testa del suo seguito. Tali seguiti favorirono l'avvento del potere regio, la cui iniziale funzione fu militare, e si reclutò la nuova nobiltà tra gli uomini al seguito dei re conquistatori. Solo sormontando l'ostacolo rappresentato dallo Stato schiavi­sta romano, si poté giungere all'ordine feudale.
Ma prendiamo in esame l'evoluzione del seguito o clientela a Roma. Essendosi da lungo tempo spezzati i legami di consanguineità, la gens, non veniva ormai più in soccorso dei suoi membri caduti nell'indigenza, come una volta era suo dovere fare. D'altra parte, poiché la cittadinanza era originaria­mente legata alla proprietà della parcella, la situazione degli espropriati non si discostava molto dall'assenza di diritti civili propria degli schiavi. Sorse di qui l'uso della "clientela", agglomerato di clienti poveri attorno a un patrono. La cittadinanza, vale dire lo Stato, viene così a costituire la base di questo rapporto, donde l'oscillazione tra plebeo e schiavo dei debitori rovinati, dato che le condizioni economiche erano nel frattempo evolute dal rapporto tra Romani, contadini piccoli proprietari, a quello della grande proprietà fondiaria del patrizio schiavista. Ormai il patrono non aveva più bisogno di essere nobile: bastava che fosse ricco; e gli stessi liberti vennero ricercati come patroni non appena beneficiarono dello statuto di cittadini romani. Finché il patronato restava sotto la dipendenza della grande proprietà schiavista e dello Stato dei patrizi, l'evoluzione verso il servaggio era sbarrata. Girando a vuoto, questo sistema non fece quindi che generare miseria e stagnazione sociale nel periodo di declino "in cui ricchi e poveri erano le sole vere classi di cittadini; in cui l'indigente, per quanto nobile fosse la sua origine, aveva bisogno di un patrono, e il milionario, anche se era un liberto, era ricercato come patrono. Quasi non si aveva più nozione degli antichi rapporti sociali ereditari" (p. 482).
Tali rapporti non potevano diventare dei veri e propri rapporti di classe, suscettibili di una feconda evoluzione, poiché il rapporto di clientela che vincolava il debitore al creditore non poteva veramente trasmettersi da una generazione all'altra. Evolvendo così tra la condizione del plebeo e quella dello schiavo, il rapporto del cliente veniva a trovarsi in un vicolo cieco. È d'uopo quindi prendere in esame la situazione sociale del plebeo, che si trovava in certo qual modo in un rapporto di seguito verso il patrono, in quanto questo distribuiva agli uomini del suo seguito la parte di plusvalore da lui accaparrata ma che non poteva consumare da solo. Questo rapporto è quindi direttamente collegato a una nuova forma di proprietà, quella dei mezzi di sussistenza, che è un rapporto storico determinato dell'uomo con la natura attraverso una mediazione a lui esterna.
Nella figura del plebeo, lacerato da contraddizioni insolubili da quando era esso stesso prodotto della dissoluzione dell'antico rapporto del libero contadino cittadino di Roma, si trova la migliore illustrazione del vicolo cieco nel quale si era cacciata la società schiavista.
La plebe romana che aveva perso la proprietà della parcella costituiva essenzialmente una forma transitoria di dissoluzione: la cittadinanza, di cui essa continuava a beneficiare, le garantiva la possibilità di fruire – come i clienti, gli schiavi e i proprietari fondiari – dei mezzi di sussistenza necessari poiché questi ultimi erano ancora legati alla proprietà fondiaria (dei patrizi) e appropriati attraverso di essa.
La proprietà dei mezzi di sussistenza è infatti la terza forma possibile di appropriazione, e coincide grosso modo con la proprietà fondiaria, base della forma secondaria. Essa esclude qualsiasi rapporto dell'individuo lavoratore con i mezzi di produzione e quindi con le condizioni di esistenza. Lo stesso schiavo, separato dalle oggettive condizioni del lavoro, non ha con queste alcun rapporto, ma – come lo strumento – è indissolubilmente legato alla proprietà fondiaria, per cui, come alle bestie da soma, gli sono automatica­mente forniti i mezzi di sussistenza. La forma di proprietà dei mezzi di sussistenza che persiste presso il plebeo deriva dagli antichi rapporti che egli aveva con la comunità, cui appartenevano sia l'individuo che la terra e le sue appendici. Questo rapporto continua a sussistere a Roma anche dopo che il plebeo ha perduto la parcella ma non è ancora completamente decaduto dalla sua qualità di membro della comunità statale (cittadino) come, ad esempio, la plebe romana al tempo dei panes et circenses (p. 481), quando i patrizi facevano distribuire gratuitamente alla plebe pane e divertimenti.
Il rapporto degli schiavi differisce dunque su questo punto da quello della plebe. Come il seguito del Medioevo, la plebe trae le sue sussistenze dai proprietari fondiari riccamente forniti: essa partecipa al modo di esistenza del proprietario fondiario che ha cessato di lavorare, e la cui proprietà ingloba, tra i mezzi di produzione, il lavoratore stesso in quanto schiavo o servo. Qui il rapporto di signoria costituisce il rapporto essenziale dell'appropriazione. Siamo in piena società di classe, con i possidenti privilegiati e i loro seguiti di improduttivi e parassiti.
Oltre alla possibilità di precipitare nella schiavitù ogni qualvolta lo esigevano le condizioni dell'appropriazione reale del processo di produzione, il plebeo, come cittadino romano, aveva una doppia figura. Da un lato egli poteva, sulla base della sua cittadinanza, costituire una clientela praticamente parassitaria come strumento di manovra politica della classe aristocratica, dall'altro poteva svolgere un vero e proprio ruolo economico, fornendo col lavoro della guerra una sorta di equivalente dei mezzi di sussistenza. Ma egli cadeva qui in una nuova contraddizione, propria della Roma in declino: anziché ricevere queste prestazioni in quanto membro del seguito del capo militare, come avveniva tra i Germani ove questo rapporto si trasformò in un istituto feudale, il plebeo percepì ben presto un salario per il proprio servizio militare, come qualsiasi altro mercenario, con cui entrò quindi in concorrenza. Marx sottolinea che il salariato è nato nell'esercito (romano) come remunerazione del sopralavoro della guerra, e non come fonte diretta del plusvalore capitalistico.
I compiti della guerra diventavano tuttavia sempre più sterili a misura che la guerra stessa assumeva un carattere nettamente imperialista a profitto dell'oligarchia dominante, per cui la plebe tendeva ad essere niente di più che una rotella dell'ingranaggio dello Stato romano schiavista.
Questa funzione della plebe evoca la fondamentale funzione fisiologica di riprodurre l'umanità su più vasta scala, la cui portata e significato possono essere afferrati solo in relazione all'evolvere delle strutture sociali dalla nazione consanguinea a quella politica attraverso la divisione del lavoro esistente: la plebe si chiamò proletariato per la sua funzione genetica di generare nuovi cittadini, futuri soldati e custodi dello Stato schiavista, e percepì per questo le sue sussistenze. Non può dunque questo proletariato essere paragonato a quello moderno, che, in quanto forza lavoro viva, fisiologica, crea tutti i valori nel processo di produzione, poiché il lavoro è insieme alla terra vivente la fonte di ogni ricchezza e – nella parola di Marx – feconda la terra.
La funzione prolifica dei plebei era in connessione con l'altro loro compito di procurare schiavi al modo di produzione dominante facendo la guerra [13]. Ma il servizio militare fu causa di nuove contraddizioni, da quando lo Stato era diventato schiavista: i plebei entrarono in concorrenza con gli schiavi stessi. Infatti, dal momento che erano questi ultimi ad assolvere compiti produttivi, i plebei erano costretti, in tempo di pace, all'inattività, e col prolungarsi della pace rischiavano di indebitarsi e quindi di diventare schiavi per debiti nei possedimenti dei patrizi. A causa di questa insicurezza, i plebei non avevano mai un legame fisso con la produzione e la società e non potevano dunque formare una classe nel senso proprio del termine.
La causa profonda della situazione d'impasse in cui Roma si trovava era data dal fatto che il lavoro schiavista, nello sviluppo delle forze produttive umane, aveva raggiunto un vertice che non poteva oltrepassare senza trasformarsi in lavoro servile. Nell'epoca imperiale, l'agricoltura romana trasformò in pascoli superfici vastissime, spopolando il paese. Lo schiavismo procedeva di pari passo con l'estendersi dell'economia di piantagione a carattere estensivo e dunque poco produttiva, marcante anzi un nettissimo rinculo rispetto alla produttività del libero contadino e anch'essa declinava progressivamente, dal momento che diventava sempre più difficile procurarsi gli schiavi, mentre i barbari asserviti, essendo di nazionalità assai eterogenee, non riuscivano a comprendersi fra di loro nei grandi possedimenti. Di fronte alla penuria di braccia provocata dal rendimento decrescente delle guerre di conquista, si cercò di elevare la produttività della manodopera nelle condizioni esistenti, senza mutare fondamentalmente i rapporti sociali, introducendo il colonato, che si rivelò alla fin fine un vicolo cieco sulla via dello sviluppo delle forze produttive agricole. Si smembrarono le grandi proprietà in piccole parcelle date in affitto per lunghissima durata (enfiteusi) a coloni assoggettati a prestazioni in denaro o in natura. Ma questi coloni furono ben presto coperti di debiti e caddero sotto la dipendenza dei grandi proprietari fondiari.
In fondo, la grande proprietà fondiaria conteneva già, in germe, la forma che assunse poi sotto il feudalesimo, ma che non poteva tuttavia realizzarsi nelle condizioni di produzione schiavistica. Nelle diverse forme di lavoro agricolo sorte in quel momento storico, si può scoprire la transizione alla servitù della gleba: La piccola coltivazione diventava la sola forma redditizia. Tutte le "ville, una dopo l'altra, vennero spezzettate in piccole parcelle e assegnate a fittavoli ereditari che pagavano una determinata somma o a partiarii (parcellari), più amministratori che fittavoli, i quali, in cambio del loro lavoro, ricevevano la sesta o la nona parte del prodotto annuale. Prevalentemente, però, questi piccoli appezzamenti venivano concessi a coloni che pagavano un certo canone annuo, che erano incatenati alla gleba e potevano essere venduti insieme alla loro parcella; essi non erano certo schiavi, ma neppure liberi [14]. Tuttavia il fatto di essere venduti contempora­neamente  alla terra-merce li designava più come schiavi che come servi. Risorgeva qui il rapporto schiavista fondamentale di Roma, alzatosi a un alto livello di produzione mercantile.
I liberi contadini impoveriti cercarono volenti o nolenti la garanzia del rapporto clientelare, dandosi un patrono per sfuggire all'arbitrio dei funzionari e del fisco. Interi villaggi funzionavano sul sistema dei precari (contadini che utilizzavano la terra dietro versamento di un interesse). Si vede come tutte queste forme racchiudano già in germe i rapporti di dipendenza. L'imperatore Costantino e i suoi successori rafforzarono e confermarono nella loro legislazione la dipendenza dei coloni e dei piccoli contadini nei confronti della grande proprietà fondiaria; ma lo stesso Stato romano rappresentava un ostacolo per lo sviluppo dei rapporti di dipendenza personale.
Restava infine per i plebei ancora un'altra possibilità: l'artigianato, legato a Roma alla produzione di merci. Certo, rispetto al contadiname che costituiva l'ampia e poderosa base della forma classico-antica, esso godeva all'inizio di scarsissima considerazione. Ma la situazione degli artigiani finì per migliorare grazie alla crescente importanza della loro attività. Potevano diventare artigiani, oltre agli stranieri e ai liberti, anche i plebei: In entrambe le classi – meteci, liberti e loro discendenti – si reclutavano gli artigiani, e allo stesso status erano ridotti i plebei che abbandonavano la coltivazione dei campi. Essi avevano il diritto di appartenere a corporazioni legali; queste erano tenute in così elevata considerazione che si faceva il nome di Numa quale loro fondatore. Esse erano nove: suonatori di flauto, orafi, carpentieri, tintori, calzolai, conciatori, ramai, vasai e la nona corporazione che comprendeva tutti i rimanenti mestieri. Alcuni di essi erano abitanti del suburbio autonomi; altri erano "isopolidi" che avevano acquistato il diritto di cittadinanza quando esso esisteva e non si erano sottomessi ad alcun patrono; altri ancora discendevano da "seguiti" che si erano sciolti per l'estinzione della stirpe del protettore. E Marx sottolinea che in quanto "eterni" piccolo-borghesi, questi artigiani non si preoccupavano che della loro piccola, limitata attività: essi sono indubbiamente stati altrettanto estranei alle contese tra gli antichi cittadini e la comunità, quanto le corporazioni fiorentine alle discordie tra le dinastie dei guelfi e dei ghibellini (p. 483).
Si generalizzò così un artigianato per le condizioni dell'epoca sviluppatissimo e che costituisce una delle più alte conquiste della forma secondaria. Roma giunse perfino a sviluppare ancora l'artigianato creato dalla forma asiatica. Il passo successivo ci conduce allo stadio superiore della barbarie, al periodo nel quale tutti i popoli civili assolvono la loro età eroica: l'età della spada di ferro, ma anche del vomere e dell'ascia di ferro. Il ferro entra al servizio dell'uomo, e fu l'ultima e la più importante di tutte le materie prime che ebbero nella storia un ruolo rivoluzionario; l'ultima ... fino alla patata. Il ferro permise la coltivazione di superfici più vaste, il dissodamento di estese zone boscose, fornì all'artigianato strumenti di una durezza e di un taglio a cui né la pietra né alcun altro metallo conosciuto poteva resistere [15].
Le forze produttive e la ricchezza aumentarono rapidamente, ma in quanto ricchezza individuale; la tessitura, la lavorazione dei metalli e gli altri mestieri che si differenziano sempre più davano alla produzione una varietà e una perfezione crescente; l'agricoltura forniva, oltre ai cereali, legumi e frutta, e anche olio e vino, di cui si era appresa la preparazione. Attività così svariate non potevano più essere esercitate da uno stesso individuo. Si compì così la seconda grande divisione del lavoro: l'ARTIGIANATO SI SEPARO' DALL'AGRICOLTURA (il che si realizzò solamente sotto il feudalesimo, pur trovandosi sviluppato in nuce già nella forma secondaria, specie in quella classico-antica). Il costante accrescimento della produzione e quindi della produttività del lavoro elevò il valore della forza lavoro umana; la schiavitù ancora nascente e sporadica nello stadio inferiore, diventava ora una componente essenziale del sistema sociale; gli schiavi cessano di essere semplici ausiliari e vengono spinti a dozzine al lavoro, nei campi e nelle officine. Con la divisione della produzione nelle sue due branche principali – agricoltura e artigianato – nasce la produzione direttamente per lo scambio, la produzione mercantile, e con essa il commercio non solo all'interno e alle frontiere delle comunità, ma anche già oltremare (ibid.).
Nella forma secondaria, tuttavia, la produzione mercantile, benché la sua base materiale (fra l'altro la tecnica) vi fosse largamente elaborata, non poteva espandersi. Questa base, come dice Marx (che concepisce sempre le cose in maniera universale, al di sopra dei paesi e delle generazioni), "andrà a vantaggio delle generazioni seguenti". Sarà necessario che i rapporti sociali possano adeguarsi alle forze produttive perché diano loro nuovo slancio. Nella forma secondaria l'artigianato trovava dei limiti ben precisi nel predominio della proprietà fondiaria, che opprimeva letteralmente la variante classico-antica  non  lasciando   alcuna  possibilità di organizzazione e  di sviluppo autonomo ad altre attività produttive, artigianali o manifatturiere. L'artigianato a  Roma si svilupperà ai margini della proprietà fondiaria, sull'ampio terreno degli scambi mercantili, ma verrà imbrigliato dalle strutture sociali che gli darà lo Stato schiavista. Esso si ambienterà solo nel feudalesimo allorché potrà svilupparsi autonomamente nelle città.
Engels, nell'Origine della famiglia (in cui egli studia lo sviluppo economico sfociante nella produzione mercantile che precede di gran lunga il capitalismo), sottolinea che l'artigianato non fu la fonte della produzione mercantile a questo stadio della produzione: La proprietà privata di armenti e di oggetti di lusso che andava affermandosi portò allo scambio tra individui e alla trasformazione dei prodotti in merci, seppur in maniera necessariamente limitata. Ed è qui il germe di tutto il rivolgimento che ne seguì [16].
L'antichità non poteva tuttavia sopprimere la predominanza del valore d'uso sul valore di scambio delle merci in denaro: Nell'antichità classica, anziché dare importanza alla quantità e al valore di scambio, ci si atteneva esclusivamente alla quantità e al valore d'uso. In seguito alla divisione dello branche della produzione sociale le merci sono fatte meglio; le diverse inclinazioni e talenti degli uomini possono scegliersi corrispondenti sfere d'azione, poiché senza limitazione non si può eseguire nulla di notevole in nessun campo: dunque la divisione del lavoro perfeziona sia il prodotto che il produttore. Se, occasionalmente, si parla anche dell'aumento della massa dei prodotti, si mette in rilievo allora la maggiore abbondanza di valori d'uso, di oggetti utili, ma non affatto il valore di scambio o la diminuzione di prezzo delle merci [17].
La produzione mercantile potrà accedere ad un livello superiore nel suo sviluppo ma la base di questa evoluzione è ormai realizzata.
Dal momento che la produzione di merci e il sistema monetario avevano già assunto un'estensione notevolissima per le condizioni esistenti in Grecia e a Roma, era inevitabile che l'usuraio rivestisse un ruolo primario. Ma finché sussisteva la forma secondaria dominata dalla proprietà fondiaria, egli non era in grado di generare rapporti monetari di tipo capitalistico [18]. Contribuì tuttavia ad aggravare le condizioni del produttore e quindi ad imporre rapporti di classe, rovinando i debitori. L'usuraio, nei modi di produzione precapitalistici, svolge un'azione rivoluzionaria solo sul piano politico, perché dissolve le forme esistenti di proprietà su cui le strutture politiche si edificano e impedisce all'economia di riprodursi sulle vecchie basi. Esso esercita anche un'azione centralizzatrice, ma soltanto sulla base dell'antico modo di produzione, e non su quello che deve prendere il suo posto tramite una nuova rivoluzione, mentre i debitori da lui rovinati vanno a costituire la miserabile clientela del patrono [19].
Nella variante classico-antica, specie a Roma, la predominanza del denaro, nonostante l'accumulazione di somme fantastiche, non poteva condurre ai rapporti capitalistici: Il denaro non funzionava allora che come potente mezzo di dissoluzione della piccola proprietà contadina e dei rapporti sociali generali. La semplice esistenza della ricchezza monetaria come pure il fatto che essa abbia potuto conquistare la supremazia non bastano ad assicurare la dissoluzione di tali modi di produzione e di comportamento in capitale. Altrimenti l'antica Roma, Bisanzio ecc., avrebbero concluso la loro storia con il lavoro libero e il capitale o piuttosto avrebbero dato inizio a una nuova storia. Anche li la dissoluzione dei vecchi rapporti di proprietà era legata allo sviluppo della ricchezza monetaria, del commercio, ecc., ma invece di portare all'industria, essa portò al dominio della campagna sulla città, non riuscì cioè a scuotere il predominio della proprietà fondiaria [20].
La forma di produzione secondaria nella sua variante classico-antica ci fornisce così un preludio drammatico al processo della cosiddetta accumula­zione del capitale della forma quaternaria, che in massa spoglierà e "libererà" della terra e dei mezzi di produzione i produttori. Nell'antichità mancavano tuttavia le piene condizioni per una liberazione definitiva del produttore, cui sono preliminari la completa autonomizzazione della proprietà fondiaria (nelle mani di una classe particolare di usurpatori) e uno sviluppo notevole dei mezzi   di lavoro, resisi anch'essi autonomi nei confronti  del produttore divenuto nuda forza lavoro. Operare la dissociazione tra proprietà fondiaria e mezzo di lavoro separando la città dalla campagna, sarà il compito storico del feudalesimo. La produzione mercantile non dominava ancora sufficientemente questi tre settori della produzione per imprimere loro il carattere di merce: l'uomo era ancora saldato alla terra.
La variante classico-antica aveva spinto all'estremo limite di sviluppo i suoi rapporti sociali di proprietà e di produzione e non poteva ulteriormente evolvere; e questo provocò una decadenza irrimediabile: Impoverimento generale, regresso del commercio, dell'artigianato, dell'arte, spopolamento, decadenza della città, ricaduta dell'agricoltura ad un livello inferiore: questo fu il risultato finale dell'egemonia mondiale di Roma [21].
La soluzione poteva venire solo dall'esterno. La nuova rivoluzione dei rapporti sociali sarà il contributo della variante germanica della forma secondaria nell'opera di sviluppo delle forze produttive.

pagina


[1] . Cf. Marx, Grundrisse, cit., p. 471.
[2] . Cf. Engels, La marca, in Storia e lingua dei Germani, Roma 1974, p. 162-3.
[3] . Cf. Marx, terzo abbozzo della lettera a Vera Zasulic, 8 marzo 1881.
[4] . Benché l'essenziale della descrizione dell'evoluzione delle forme successive si trovi nel testo dei Grundrisse sulle Forme di produzione a cui continuamente ci richiamiamo, attingiamo pure largamente in altri lavori di Marx-Engels, nei quali essi vi svolgono non tanto definizioni o sintesi quanto analisi più dettagliate.
[5] . Donde "il ritorno ai Greci ed ai Romani" nel corso della classica rivoluzione borghese, specie in Francia. I contadini parcellari, che sono la forza principale contro le potenze feudali, credevano, in quanto proprietari sovrani della loro terra, al contratto sociale sulla base della libertà, dell'uguaglianza e della fraternità nella nazione. Avevano dimenticato che quei rapporti erano sfociati a Roma nell'espropriazione e nello schiavismo, così come i rapporti moderni sfociano nell'espropriazione e nella dittatura totalitaria del capitale. La mistificazione ha una base saldamente materiale.
[6] . Cf. Engels, l'Origine della famiglia, cit, cap. VI, Gens e Stato a Roma, p. 158.
[7] . Cf. Marx, Il Capitale 1, cap. III, 3, Denaro come mezzo di pagamento.
[8] . Cf. Engels, l'Origine della famiglia, cit., cap. V, Genesi dello Stato ateniese, p. 139.
[9] . Cf. Marx, Il Capitale III, cap. XXXVI, Condizioni precapitalistiche.
[10] . Cf. Marx, Il Capitale I, cap. XXIV, 2, Espropriazione della popolazione rurale.
[11] . Cf. Marx,// Capitale III, cap. XXXVI, Condizioni precapitalistiche.
[12] . Cf. Engels, l'Origine della famiglia, cit, cap. VII, La gens tra i Celti e i Tedeschi, p. 174.
[13] . Cf. Marx, Il Capitale I, XXIV, 2. Vedere alla fine della nota di Marx la riproduzione della citazione di Appiano sulla sorte dei plebei in tempo di guerra e in tempo di pace.
È estremamente curioso constatare che furono gli uomini, e non le donne, ad addossarsi la funzione genetica della riproduzione umana. Si era nella società patriarcale, e gli uomini, non avendo che una funzione assolutamente contingente nell'allevamento dei bambini, ossia nel reale processo di lavoro della riproduzione umana, anche su questo piano scivolarono nel parassitismo. >
> Se giunsero tuttavia ad usurpare la funzione prolifica, fu in quanto erano cittadini romani e come tali il ceppo della nazione, e inoltre questa cittadinanza attribuiva loro la funzione del servizio militare che, in una società come Roma, costituiva uno dei presupposti per l'occupazione della terra. La posizione predominante degli uomini (virilismo o maschilismo) nei paesi mediterranei ha indubbiamente la sua origine lontana ma tenace in queste contraddizioni della funzione di riproduzione dovute alla società di classe imperialistica: fornire carne da cannone e manodopera a basso prezzo, sotto la direzione del capofamiglia "maschio".
[14] . Cf. Engels, l'Origine della famiglia, cit, cap. VIII, La formazione dello Stato presso i Tedeschi, p. 180.
[15] . Cf. Engels,l'Origine della famiglia, cit., cap. IX, Barbarie e civiltà, p. 193.
[16] . Cf. Engels, l'Origine della famiglia, cit., cap. V, Genesi dello Stato ateniese, p. 140.
[17] . Cf. Marx, Il Capitale I, sez. IV, cap. XII, 5.
[18] . In opposizione alla dialettica astratta, senza contenuto determinato, di Hegel, Engels sottolinea che "è il cambiamento quantitativo che modificala qualità", in questo caso è un cambiamento quantitativo di rapporti dati che porta a un nuovo modo di produzione: "Il processo infinito non è in Hegel che un deserto vuoto, perché è solo un'eterna ripetizione dello stesso processo: 1+1+1+1, ecc. Ora, con la semplice addizione delle quantità formali, non si ottiene che una somma più grande, e non già una diversa qualità: è perciò necessario che la stessa quantità abbia già una data qualità che si modifica e si rovescia nel suo contrario ad un determinato livello di accumulazione" (Note  preparatorie alla Dialettica della natura del signor Dühring).  Il denaro come numerario può evolversi in denaro, segno del valore delle merci e quest'ultimo in mezzo di tesaurizzazione, ma a questo stadio non può ancora trasformarsi in capitale.
[19] . Cf. Marx, Storta delle teorie economiche, Torino 1971, vol. III, p. 543.
[20] . Cf. Marx, Grundrisse, cit., p. 488.
[21] . Cf. F.Engels, l'Origine della famiglia, cit., p. 179.
pagina